1947, il Premio Viareggio alle Lettere dal carcere di Gramsci: echi e retroscena di una
svolta
di Stefano Bucciarelli
«Filosofia italiana», XIII (2018), 2, pp. 245-265
Nella notte di ferragosto del 1947, nei locali della Capannina di Viareggio, il dodicesimo
Premio Viareggio, il secondo del dopoguerra, fu assegnato alle Lettere dal carcere di Antonio
Gramsci.
Il libro, il primo della prevista edizione delle opere complete affidata a Einaudi per la cura di
Felice Platone, era uscito in concomitanza con il decennale della morte di Gramsci (27 aprile)
ed aveva avuto un immediato successo: alla fine dell’anno si arrivò alla quarta ristampa. A tale
popolarità delle Lettere certamente contribuì molto anche l’assegnazione del Premio, che fu a
sua volta un evento clamoroso che coincise con una svolta nella storia del ‘Viareggio’,
collegandosi anche in modo significativo alla rinnovata vita politica e amministrativa della città.
E’ per questo che riteniamo utile partire proprio da questo contesto, le cui vicende ci
introdurranno e verranno a intersecarsi con la storia di quella assegnazione.
1. La contrastata ripresa del Premio nel dopoguerra
E’ noto che, dopo la fondazione del 1929 e la prima assegnazione del 1930, il Premio Viareggio
era rimasto fino al 1939 segnato vieppiù dalla presenza del regime, con la presidenza gestita dal
1931 al 1938 da Lando Ferretti e nel 1939 da Filippo Tommaso Marinetti. Rèpaci, fondatore
dell’impresa con Carlo Salsa e Alberto Colantuoni, era rimasto in giuria qualche anno, in
posizione sempre più defilata, fino alla sua uscita. Scriverà nel suo Taccuino segreto: nel 1934
«il fascismo mi defenestrò dal Premio»1. La sua posizione di osservato speciale, che comunque
non destava allarme politico ormai dal 1926, dopo la sua uscita dal Partito comunista 2, non gli
impedì in ogni caso una adesione costantemente partecipe al versante festaiolo e mondano delle
estati viareggine e, per quanto possibile, dello stesso Premio. Lo documentano i passi del suo
Taccuino che, nel 1939, pur non riservando al Premio neanche una parola, notavano con
passione ammirata il trapasso di Viareggio dalla vecchia città di Viani «morta per sempre» ad
una realtà che, «da tanto che la conosco, mai […] si [era] fatta un viso più chic», con una
spiaggia divenuta«più irresistibile che mai»3.
Negli anni della guerra era poi seguito un lungo silenzio del Premio, e anche del Taccuino di
Leonida4.
Nel dopoguerra, proprio le vicende culturali che si muovono intorno a Viareggio ci offrono un
punto di osservazione interessante su un panorama nazionale in grande fermento: quello dei
premi letterari, in piena ripresa sotto il nuovo cielo. C’è una divertente (e per altri versi
importante) lettera di Italo Calvino, inviata da Sanremo a Viareggio in data 23 dicembre 1946:
l’autore, che ha appena terminato Il sentiero dei nidi di ragno, scrive a Silvio Micheli che
quell’anno ha vinto il Premio Viareggio con un prestigioso ex aequo con Umberto Saba. Il tema
dei premi letterari torna in una ironica vignetta finale - «il Natale dei narratori» – in cui un
1
Babbo Natale è prodigo di premi a vari scrittori; tra di essi lo stesso Calvino che accetta un
«premio purchessìa», sospirando: «gente era tempo! »5; un Pavese per il quale si profetizza il
‘Viareggio’ (e Il compagno sarà, in effetti, tra le opere considerate in lizza); un Micheli che,
dopo il ‘Viareggio’, non può che ricevere … nientemeno che il Nobel; con una previsione
finale: «Il ’47 sarà dominato da noialtri, perbacco!»6. Noialtri einaudiani, si intende. Dice
molto, il tono della lettera e della vignetta su come il premio letterario tornasse ad essere, dopo
la diffusione e l’uso che ne aveva fatto il fascismo, iniziativa molto seguita, manifestazione di
una nuova volontà di partecipazione culturale, luogo di effettiva diffusione di conoscenze,
strumento di valorizzazione di nuovi ingegni e - perché no - aiuto economico effettivo per
giovani autori di talento.
Ma ripartire con il Premio Viareggio nel dopoguerra non era stato affatto scontato.
Retrocedendo rispetto a quella prima edizione del 1946, merita senz’altro ricordare – cosa che
gli storici del Premio non fanno, e nemmeno Rèpaci fece - la fugace vicenda di un premio
intitolato ad una rivista effimera quanto ambiziosa e pregiata, nata per l’iniziativa proprio di
Silvio Micheli: «Darsena nuova». Il giovane scrittore viareggino si era piazzato nel serbatoio
dei nuovi talenti letterari einaudiani; Cesare Pavese ne era stato il patrocinatore, lo scopritore,
«il Cristoforo Colombo»7. Dalla sua Viareggio, Micheli mise all’opera tutta la rete dei suoi
contatti al servizio della rivista, che esordì nel dicembre 1945 lanciando appunto il Premio
letterario Darsena nuova8.
In quel clima qualcuno poté anche pensare che la novità passasse attraverso una archiviazione
del ‘Viareggio’. Quale altro significato dare infatti alla pungente affermazione di Micheli,
contenuta in una nota in calce al regolamento: “Teniamo a precisare che il premio Darsena
Nuova non ha niente a che vedere con il passato Premio Viareggio”? La giuria, posta sotto la
presidenza di Elpidio Jenco, annoverava Giovanni Bandini, Leonardo Di Giorgio, Giancarlo
Fusco, Riccardo Marchi, Angelo Mele, Biagio Zagarrio, Amedeo Ugolini, neo direttore
dell’edizione piemontese de «l’Unità»; ma anche lo stesso Leonida Rèpaci, con Silvio Micheli
segretario. Finì presto, la rivista (nel luglio del 1946) e finì – poco dopo e male - il premio, dalla
cui giuria Rèpaci si era tempestivamente dimesso. Senonché l’adesione iniziale del dinamico
Leonida era il sintomo, quanto meno, di una qualche incertezza sugli scenari futuri possibili.
In parallelo all’alternativa ‘darsenotta’, si era però aperto per Rèpaci un nuovo e più insidioso
fronte: l’ipotesi della avocazione pubblica del Premio Viareggio. Essa fu decisamente sostenuta
dall’interlocutore uscito dalle elezioni della primavera del 1946: l’amministrazione rossa di
Alessandro (Sandrino) Petri, sindaco comunista nella bianca provincia di Lucca9. Nessuna
meraviglia che i nuovi amministratori pensassero ad una ripresa del Premio Viareggio sotto le
insegne comunali, con un atto che doveva segnare una sorta di riappropriazione cittadina di una
iniziativa tutto sommato rimasta sempre appannaggio dell’universo della mondanità estiva di
Viareggio e, negli ultimi anni, coinvolta nelle spire del regime. L’idea di avocare il Premio
Viareggio alle istanze amministrative locali significava dunque democratizzarlo, avvicinarlo al
popolo, redimerlo in qualche modo dal suo passato politicamente compromesso.
A spuntarla fu l'Azienda Autonoma Riviera della Versilia, l’ente preposto al turismo 10, che,
ottenuta una autorizzazione ministeriale a ripristinare il Premio, istituì a tal fine una giuria con
dentro Giovanni Battista Angioletti, direttore de «La Fiera letteraria», Corrado Alvaro e,
appunto, Elpidio Jenco. La manovra coinvolgeva dunque il presidente del ‘Darsena nuova’,
Jenco, dopo che l’Azienda, avviando l’operazione in giugno, aveva espresso l’intenzione di
giungere ad un esito che fosse «in collaborazione con il Premio Darsena Nuova e non in
contrasto o in concorrenza»11.
2
L’iniziativa entrò però in rotta di collisione con l’operazione che i tre fondatori del ‘Viareggio’
avevano infine intrapreso, costituendo a Roma un comitato organizzatore e una giuria che
riaffermò la terza ipotesi, quella che risultò vincente: la ripresa del Premio sotto la guida del suo
storico patron.
La soluzione fu allora un compromesso che vide riunite le giurie di quell’anno 12. In realtà,
Angioletti, Alvaro e Jenco, entrarono nella giuria del rinato Viareggio, ma non altri ‘darsenotti’,
come per esempio Giancarlo Fusco che se ne lamentò13. Fu una soluzione provvisoria di fatto,
sui cui ingorghi Rèpaci sorvolò nel suo Taccuino: «Ho formato la giuria […] una giuria
interlocutoria, messa su alla brava»14. Ma il Premio Viareggio era ripartito.
2. Lo scenario dell’avocazione
Nel 1947 tornò in scena lo stesso copione, ché, se ormai non era più in discussione la continuità
del Premio Viareggio, la questione della sua titolarità era rimasta ufficialmente aperta. Le
propensioni avocazioniste spinsero allora Petri a riprendere la partita con una nuova mossa, il
cui tramite fu questa volta la neonata Commissione comunale del turismo. Questa, investita
dall’Amministrazione del compito di procedere all’organizzazione del Premio, individuò
l’organismo atto a ciò nella Società di Cultura. Si trattava di una istituzione sorta in città
nell’ottobre del 1946, soprattutto grazie all’azione di Tristano Bolelli (filologo dell’Università
di Pisa) e di Alberto Simone (docente del locale liceo classico), in grado di coinvolgere, in una
attività che fu soprattutto di conferenze, intellettuali di grande prestigio15. Tra questi ci fu Luigi
Russo, che ne inaugurò l’attività sociale con una conferenza su La letteratura italiana e la
storiografia contemporanea.
Ricevuto dunque il prestigioso incarico, la Società di Cultura, per opera del suo presidente
Bolelli, subito procedette a mettere insieme nomi per una qualificata giuria, la cui presidenza fu
affidata proprio a Luigi Russo, mentre per la presidenza onoraria fu ottenuta l’adesione del
presidente della Costituente Umberto Terracini.
Era il 28 giugno quando un comunicato stampa del sindaco portò la manovra allo scoperto.
Furibonda fu la reazione di Rèpaci, che scatenò una battaglia culturale, politica e legale in nome
della continuità col passato, della dimensione nazionale e non locale del premio, della sua
autonomia. Datata lo stesso 28 giugno, una lettera della presidenza del Premio, a cura del legale
e segretario dello stesso, avvocato Domenico Lipara, notificò la formale diffida al sindaco a
perseverare nell’azione di avocazione, insieme con un invito, viceversa, a collaborare all’opera
già intrapresa dalla giuria dell’anno prima per una nuova edizione del Premio16.
La questione fu risolta però definitivamente pochi giorni dopo da una seconda missiva, datata 1
luglio. Era la lettera inviata al sindaco Petri da Palmiro Togliatti:
Caro compagno, da informazioni pervenutemi ho appreso che tu hai richiesto l’avocazione al Comune del
giudizio per il Premio Viareggio. Ti segnalo che la Direzione del partito ritiene, e ti invita a regolarti in
questo senso, che il Premio debba essere assegnato dall’apposita Commissione, anche per le ragioni che ti
saranno chiarite a voce alla prossima occasione. È invece assai utile che tu accetti, come ti è stato offerto,
di far parte della Commissione stessa. Attendo da te un cenno di assicurazione e ti invio intanto i più
fraterni e cordiali saluti17.
L’invito non ammetteva ovviamente repliche. Il 5 luglio Petri, con mille imbarazzate scuse,
revocò il mandato che aveva conferito alla Società di Cultura, innescando come è facile pensare
polemiche a non finire.
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L’intera questione era stata infatti seguita con grande partecipazione dalla politica cittadina,
specie nell’ambito della maggioranza di governo che aveva condiviso largamente le ragioni
generali in favore dell’avocazione. I socialisti poi, in particolare, avevano sostenuto con
convinzione l’alternativa della Società di Cultura, dove l’area laica aveva buona rappresentanza.
E valevano inoltre, per i comunisti, ma forse ancor più per i socialisti, le ragioni polemiche
contro Rèpaci, entrato con la scissione di Palazzo Barberini nelle fila socialdemocratiche e
divenuto in quei mesi condirettore del quotidiano del nuovo Partito socialista dei lavoratori
italiani: «L’Umanità»18. Per altro il Pci viareggino era stato facilmente persuaso dalle ragioni
del popolare Sandrino: un giudizio un po’ intransigente su quella sorta di villeggianti della
cultura quali risultavano ai suoi occhi i giurati repaciani.
Erano valutazioni che non mancavano di riecheggiare nella stessa lettera di risposta a Togliatti.
In essa infatti, accettando senza obiezioni il diktat, Petri rilevava, a mo’ di giustificazione della
sua diffidenza, l’assenza di un qualunque riscontro alla richiesta di rendicontazione sulla
gestione dell’anno precedente, ciò che non poteva non insospettire un sindaco attento come lui
(«e vecchissimo ragioniere, taccagno se tu vuoi»). I livelli di mediazione tra politica e cultura
del sindaco per altro non andavano oltre la dichiarata preoccupazione che gli organizzatori
fossero «persone di sicuro affidamento politico e artistico», sicché la sua «adesione quale
membro della Giuria», consigliata come si è visto dallo stesso Togliatti, compito di cui
onestamente dichiarava di non sentirsi all’altezza, poteva essere da lui accettata solo affinché il
suo voto potesse «influire sul verdetto nel senso desiderato dal Partito». La lettera si chiudeva
poi con il rinvio al prospettato incontro a Roma, caldeggiato per altro, più che per la questione
in campo, da considerarsi ormai risolta, per il bisogno di ricevere un «indirizzo definitivo» su
un’altra non specificata faccenda evocata in modo non preciso in una «lettera testé giuntami dal
compagno Barontini»19: Ilio Barontini, il mitico fondatore del Pci, antifascista e resistente, ora
Costituente eletto nel collegio di Pisa.
Nella discussione interna al Partito locale, Petri aveva avuto l’opposizione del suo collaboratore
Leone Sbrana20: scrittore, reduce dalla guerra con una bruciante esperienza di internato militare,
questi era entrato negli organici del Comune assumendo la funzione di titolare dell’ufficio
stampa, strumento a quei tempi inedito che era stato istituito da Petri su proposta dello stesso
Sbrana per curare le relazioni pubbliche. Anche per questo Leone sarà il compagno di viaggio
di Sandrino a Roma, alla Direzione nazionale del Pci21.
Gli incontri, che si svolsero a Botteghe oscure in successive riunioni protrattesi per più giorni,
non videro l’apparizione di Togliatti, ma furono condotti con la partecipazione di quattro
interlocutori della Commissione Stampa e Propaganda22.
Nel merito della questione di cui finora si è detto, non ci fu ovviamente discussione. Petri fu
chiamato a difendersi per non aver tenuto nascosto l’autografo togliattiano, che ingenuamente
aveva esibito ai quattro venti, magari a riprova della sua impossibilità a fare altrimenti, per cui i
suoi contenuti erano divenuti ormai di dominio pubblico; e anche per non averlo restituito (cosa
che creerà un caso di coscienza a Sandrino, che però l’autografo non lo restituirà mai23).
Fu invece espressamente e contestualmente evocata e discussa la questione della candidatura al
Premio Viareggio di Gramsci. Era su questo, anche se non precisamente sul nome in campo,
che Petri era stato messo sull’avviso dalla lettera di Barontini. La discussione vide per altro i
nostri un po’ spiazzati, anche perché gli interlocutori romani presentarono al riguardo un arco di
posizioni assai diverse. Fu in particolare uno a sostenere apertamente la soluzione del Premio a
Gramsci, seppure mettendo in campo – dice Sbrana - «dotte argomentazioni» «più di natura
estetica che politica»: era Giacomo Debenedetti, critico de «l’Unità» e giurato del ‘Viareggio’.
4
Dunque, che la vicenda istituzionale del Premio fosse dall’inizio collegata al riconoscimento
alle Lettere dal carcere è, anche da questo episodio, provato.
3. Togliatti e l’‘operazione Gramsci’
In tutta questa duplice vicenda, la linea del segretario generale del Pci si dimostrò coerente con
il suo disegno di una politica culturale che nel partito era tutta in costruzione.
E’ appena il caso di ricordare il fuoco della polemica con Vittorini, che proprio in quei mesi si
avvicinava all’epilogo, con l’invito di quest’ultimo alla politica a rispettare l’autonomia delle
battaglie culturali24. E’ chiaro come, al di là della dura contrapposizione che portò alla chiusura
de «Il Politecnico», Togliatti concepisse l’idea di un lavoro da svolgere, con attenta cautela, in
direzione dei tanti intellettuali che, pur non ‘organici’ alla politica del partito e magari neppure
iscritti, non sfuggivano alla possibilità di un rapporto positivo con esso, nel loro sforzo di
rinnovamento culturale25.
Questo fu anche il senso della sua apertura a Rèpaci, anche contro gli opposti orientamenti dei
comunisti di Viareggio. Eppure era un’operazione – Togliatti lo sapeva – non immune da rischi:
la giuria del Premio Viareggio non era propriamente un covo di comunisti; e lo stesso Rèpaci
non era così affidabile sul piano politico, anche se la sua militanza socialdemocratica non passò
l’anno, per gli ondeggiamenti a cui era comunque inguaribilmente soggetto. Oltretutto a
Togliatti non mancava la conoscenza, così come dei trascorsi rivoluzionari di Rèpaci, della
rottura da lui consumata con il movimento comunista, per il clamore anche pubblico che aveva
avuto, ma che nessuno allora ricordava o rievocava26.
L’apertura di credito verso Rèpaci non dipese solamente dalla sfiducia, che certo c’era, in una
soluzione che fosse affidata tutta a forze locali; non dipese solamente dalla fiducia di avere
comunque all’interno del Premio pedine su cui poter contare (e non si parla ovviamente del
buon Petri). Ma fece parte di una strategia di incoraggiamento e di attenzione nei confronti di
un mondo che ripagava – o si confidava ripagasse - quegli atteggiamenti con partecipazione e
simpatia.
E’ una situazione ben illuminata e una scelta energicamente difesa nella risposta privata che,
sulla questione, Togliatti dette in una lettera al vicesegretario della Camera del lavoro di Milano
Italo Busetto: «Ma io trovo pure non giusto un intervento dall’alto per modificare la giuria, ecc.
Perché non lasciare che queste cose continuino a farsele i letterati tra di loro così come avevano
incominciato a fare anche sotto il fascismo? Se io sono intervenuto è proprio per consigliare che
non si intervenisse in questo senso, e questo mi pare il contrario esatto di un metodo
‘dittatoriale’». Il mio, insomma – rivendica Togliatti - è stato un intervento che ha rinunciato ad
esercitare ingerenza. Pesantemente interventista era in effetti, semmai, l’azione proposta dagli
avocazionisti come Petri. E la conclusione sottolineava l’importanza nodale della questione:
«Ad ogni modo, quando ci vedremo ne parleremo più a lungo perché la cosa coinvolge parecchi
aspetti del nostro atteggiamento verso gli intellettuali» 27.
Quanto alla questione del Premio a Gramsci, l’appoggio di Togliatti, sicuramente già discusso
con Rèpaci, incontrava anch’esso nel partito opposizioni. Esse erano per lo più di contenuto
opposto, ma di segno in certo senso identico rispetto a quelle dei comunisti viareggini:
orientamenti identitari che chiedevano di lasciare pure il Premio Viareggio ai suoi personaggi e
ai suoi riti, senza sporcarcisi le mani, senza «inghiottire il rospo borghese»; meno che mai si
poteva consegnare al Premio la testa del mitico fondatore del partito; si doveva insomma
5
riservare al Pci la gestione delle sue memorie, il «monopolio dei [suoi] monumenti»28. Alla data
della citata lettera di Togliatti a Busetto, l’ipotesi della attribuzione del premio era già nell’aria:
indiscrezioni cominciavano a passare anche sulla stampa; e a Busetto, che aveva sostenuto che
premiare Gramsci sarebbe stato addirittura «disonorevole», ribatteva Togliatti: «che c’è di male
a dare il premio a Gramsci? Non ebbe anche qualche comunista il Prix Goncourt?».
Togliatti, come si è visto, non intervenne alla riunione con i viareggini, negando
quell’«indirizzo definitivo» che Petri gli aveva richiesto; ma le sue idee erano ben chiare. Esse
erano del resto coerenti con la conduzione più generale dell’‘operazione Gramsci’, nel cui
contesto il Premio alle Lettere avrebbe rappresentato un episodio rilevante sul piano della
risonanza pubblica29.
L’operazione, lanciata come si è detto nel decimo anniversario della morte di Gramsci, puntava,
nelle intenzioni di Togliatti, a superare, pur non escludendolo, lo sforzo meramente
commemorativo di un partito che celebra il suo capo e lo richiama come un costitutore dei suoi
fondamenti dottrinari; metteva ovviamente in primo piano il sacrificio della vita del «capo della
classe operaia» alla causa della lotta contro il fascismo; mirava però oltre a ciò ad affermare il
carattere nazionale del contributo culturale di Gramsci: non semplicemente un ideologo e un
organizzatore di partito, non solo il comunista più illustre consegnato al martirologio della
causa antifascista, ma il grande intellettuale nazionale, il cui contributo alla cultura italiana
andava nel senso di arricchirla con la componente nuova di una elaborazione originale del
marxismo30.
E’ noto il riscontro favorevole addirittura di Benedetto Croce che, recensendo le Lettere,
affermò che quel libro, al di là dell’opera svolta da Gramsci per la formazione di un partito
comunista, «appartiene anche a chi è di altro od opposto partito politico»; e non solo per la sua
storia di «pericoli e persecuzioni e sofferenze e morte per un ideale» che in tutti suscita «orrore
e interiore rivolta contro il regime odioso che lo oppresse e soppresse», ma anche «perché come
uomo di pensiero egli fu dei nostri [corsivo nostro], di quelli che nei primi decennii del secolo
in Italia attesero a formarsi una mente filosofica e storica adeguata ai problemi del presente, tra
i quali anch’io mi trovai come anziano verso i più giovani»31.
Naturalmente c’erano risvolti indesiderati in quel riconoscimento, che il filosofo liberale non
era certo disposto ad estendere agli «odierni intellettuali comunisti italiani» che «troppo si
discostano dall’esempio del Gramsci»; e quel riconoscimento, Croce in un certo senso lo
revocherà allo stesso Gramsci quando, uscito l’anno dopo Il materialismo storico e la filosofia
di Benedetto Croce, egli vedrà nel primo un «ostacolo insormontabile» a svolgere la critica
della seconda32. Ma Togliatti aveva già messo «don Benedetto» sull’avviso: Croce è costretto a
«balbettare: questo è un grande spirito e un grande uomo, ma voi siete diversi». Pensi lui ad
adeguarsi all’onestà intellettuale di Gramsci, ché conformarci al suo insegnamento politico è
fatto nostro33!
Del resto, la linea della acquisizione di Gramsci al patrimonio della grande cultura nazionale era
ben rappresentata: Luigi Russo, commemorandolo in Normale a Pisa, lo pose sulla linea di
Dante e Machiavelli, Dorso e Croce, Fortunato e Labriola34.
Ma il dibattito era destinato a rimanere molto aperto in casa comunista, e riproduceva le due
linee di tensione che abbiamo evidenziato: di apertura o di arroccamento. Citiamo un solo
esempio dall’ampia discussione che, a partire dalle Lettere, sarà ospitata su «Società»,
strumento primario della discussione di area. L’azionista Paolo Alatri, commentando
l’«interesse molto vivo verso il pensiero di Croce» riscontrabile in Gramsci vi affermava che,
«nonostante il divario e l’opposizione che ci può essere fra il neoidealismo e il materialismo
6
storico, le due dottrine sono figlie di uno stesso ceppo, che è il pensiero laico moderno, e Croce
e Gramsci si muovono su un terreno comune»: considerazioni che una premessa redazionale
valutava utili da pubblicare e da discutere, pur avvertendo che non si poteva «farle nostre per
tutto ciò di crocianeggiante che in esse rimane»35.
Questo solo per alludere a come Le lettere avviassero anche un dibattito teorico, che preparava
ai più pregnanti sviluppi che seguiranno con l’uscita dei Quaderni. E anche per documentare un
parallelismo allora molto sentito, anche ai massimi livelli, tra discussione teorica e dibattito
politico: talvolta un invischiamento reciproco, che ci aiuta a contestualizzare anche le reazioni e
i fatti che caratterizzarono l’edizione 1947 del Premio.
Una considerazione di Gramsci più distaccata dalle urgenze dell’analisi politica, in favore di
una valorizzazione, in certo senso prepolitica, dei caratteri fondamentali della sua concezione
dell’uomo e della personalità individuale, è quella estrapolata dalla lettura delle Lettere che fa
Giacomo Debenedetti in Gramsci uomo classico, testo fondamentale uscito per la prima volta
sull’edizione nazionale de «l’Unità» del 22 maggio. Il metodo umano che Gramsci ci propone
non è altro che il metodo della filologia (quello studio così amato dietro le lezioni del prof.
Matteo Bartoli), «allargato su tutta l’estensione del vivere», un processo verso la scoperta e
l’analisi di sé stesso: «percepire le cose nel loro tutto complesso», «sensazione molecolare» qui
applicata all’autobiografia. «Possesso completo di tutte le molecole» e «non prescindere da
nessuna delle molecole»: queste sono le regole apprese e praticate nella situazione carceraria.
«Sul piano intimo e individuale, del contegno verso se stesso, Gramsci trasferisce la medesima
ispirazione che, nella vita pubblica, egli chiamerà politica di unità»: insomma, l’individuo come
blocco storico di relazioni e ideologie anche contraddittorie, da traguardare nell’ottica di un
ideale educativo e autoeducativo moderno36.
Le dotte argomentazioni «più di natura estetica che politica» di Debenedetti sono il binario che
porta dritto al Premio.
4. L’edizione 1947
E torniamo appunto a Viareggio. Per dire che la questione della avocazione, è ormai chiaro,
finisce lì. Due lettere di Petri, del 15 luglio e del 25 luglio, confermano la revoca dell’incarico
alla Società di Cultura: la motivazione ufficiale è la minaccia legale presentata da Rèpaci 37.
Terracini e Russo capiscono e accettano senza problemi di farsi da parte38. A fine luglio Lipara
ringrazia il sindaco, che entra in giuria, e gli chiede di impegnarsi alla ricerca di sponsor. In un
successivo chiarimento con Terracini, Petri tira il suo bilancio: «Evidentemente sono stati
commessi da noi degli errori avendo valutato troppo superficialmente la situazione; sta di fatto
però che abbiamo potuto rimediare a tempo e oggi il Premio è rientrato nella sua cornice
naturale senza che la parentesi abbia inciso a nostro discredito sia per la nostra organizzazione
quanto per la nostra autorità politica»39. Il 16 agosto, la mattina dopo l’assegnazione del Premio,
di fronte al notaio Guido Casella, presso il Comune di Viareggio, nell’ufficio del Sindaco, si
costituirà il Comitato Permanente del «Premio Letterario Viareggio», formato dai fondatori
Rèpaci, Salsa e Colantuoni. Di esso entreranno a far parte di diritto il Sindaco di Viareggio pro
tempore e il Commissario prefettizio nell’Azienda Autonoma Riviera della Versilia pro
tempore: nell’occasione rispettivamente Petri e Ciompi40. Segretario del Premio sarà nominato
Leone Sbrana, che già aveva affiancato Lipara quell’anno e che rimarrà nella carica per un
totale di 17 edizioni.
7
Quanto alla assegnazione, le vicende finali si svolgono tutte in una quindicina di giorni. Una
riunione della commissione ha luogo il 29 luglio in casa Rèpaci a Roma, in via del Babuino. E’
messa a punto una prima ampia rosa di candidati41. La dotazione risulta decisamente rilevante:
500 mila lire42. Leonida impartisce le direttive per mettere insieme un numero unico che
sancisca la ormai sicura ufficialità dell’evento, affidandone la pubblicazione alla cura editoriale
di Leone Sbrana43.
Rèpaci vi celebra il suo trionfo nell’articolo di apertura: Facciamo pure il punto del Premio
Letterario Viareggio. Rievocate le origini (con le quali – proclama il fondatore - si era ricordato
alla città di Viareggio che «su queste rive, il rogo di Shelley non cessa di bruciare»), rammentati
gli anni sempre più tristi del fascismo e l’interruzione della guerra, l’attenzione è tutta sulle
ultime battaglie, quelle nelle quali è stato affermato il diritto dei fondatori a seguitare l’impresa,
contro le pretese di chi (si chiamasse Amministrazione comunale o Azienda autonoma o Società
di Cultura) era arrivato in ritardo a mettere in dubbio, in nome di «una maggioranza qualunque,
in un’accolta di ambizioni sbagliate», la «proprietà di una casa altrui»44.
Inevitabile polemica repaciana a parte, il numero presenta un seguito di illustri contributi, più o
meno liberamente ispirati all’evento del Premio, alcuni inediti.
Ci sono i giurati, quasi tutti: non Alvaro né Bigiaretti, non Antonio Baldini né Alba De
Cespedes; non Petri, per la sua impagabile discrezione; ma ci sono i cofondatori Salsa e
Colantuoni e poi Giovanni Battista Angioletti, Elpidio Jenco, Giulio Cenci, Antonio Ciampi,
Massimo Bontempelli, Manara Valgimigli. E c’è Concetto Marchesi, con un pezzo dedicato alle
sue vacanze all’isola d’Elba, di cui è affezionato frequentatore. Ci sono anche i segretari: Lipara
con le sue considerazioni legali e Sbrana con tre storie viareggine.
La rosa dei collaboratori del numero unico è ancora vasta: ci sono concorrenti attuali, giurati
futuri e futuri vincitori. C’è chi assomma tutte e tre queste caratteristiche come Alberto
Moravia, con un bel ricordo sulla Viareggio del primo dopoguerra. E c’è Giuseppe Ravegnani
(colui che presenterà come racconti per l’infanzia L’albero del riccio, le favole gramsciane
delle Lettere); Sibilla Aleramo offre una piccola anticipazione da Selva d’amore45; ci sono poi
figure storiche per la Versilia come Enrico Pea. Non mancano storie di Resistenza: Antonello
Trombadori parla di Giorgio Labò46; una einaudiana del calibro di Natalia Ginzburg ripropone
Inverno in Abruzzo, intensa testimonianza sul periodo trascorso con i due figli e con il marito
che si trovava al confino, come ‘internato civile di guerra’, nel paese di Pizzoli (L'Aquila)47: un
ricordo commovente anche per il pubblico locale, per i trascorsi viareggini di Leone.
Ci sono infine autori, come Aldo Capasso e Lionello Fiumi, che già erano stati collaboratori,
come molti dei nomi già fatti per altro, di «Darsena Nuova»48.
Ma soprattutto, tra gli scritti dei giurati, è riproposto il Gramsci uomo classico di Debenedetti. E
questo è l’esplicito riferimento ad una scelta a cui mancava solo l’ufficializzazione.
Questo almeno è il nostro convincimento, anche se la relazione della giuria non manca di
sciorinare un’ampia rosa di candidati su cui ci si sarebbe soffermati: la produzione letteraria
dell’ultimo anno – vi si legge - era stata «ricca e notevole per varietà e impegno». Sono in
particolare ricordati: Segreti dei Gonzaga di Maria Bellonci, La romana di Alberto Moravia, Il
cielo è rosso di Giuseppe Berto, Prologo alle tenebre di Carlo Bernari, La sabbia e l’angelo di
Margherita Guidacci, ma anche altri, come Malaria di guerra di Enrico Pea, Il compagno di
Cesare Pavese, Così è stato di Natalia Ginzburg, Giorno dopo giorno di Salvatore Quasimodo,
Quaderno gotico di Mario Luzi, Lamento del gabelliere di Raffaele Carrieri49. Le cronache
8
parleranno di un sacrificato sopra tutti gli altri: Alberto Moravia; ma in realtà le menzioni
d’onore saranno per Enrico Pea, Elio Vittorini e Maria Bellonci 50.
Ma era Gramsci il vero, unico designato, anche se il racconto repaciano tratteggia la scena, nella
seduta decisiva, di una scelta improvvisa, con il cenno d’intesa tra Bontempelli Debenedetti e
Rèpaci, la candidatura autorevolmente sostenuta da Concetto Marchesi, la proposta di
unanimità che viene da Baldini, il voto unanime che segue immediatamente, le feste fatte da
tutti a Marchesi51.
Si arriva così alla serata finale, come al solito nel vivo di una nottata danzante. Passata
abbondantemente la mezzanotte, l’annuncio emozionato di Sbrana con la lettura della relazione
della giuria, il discorso di Rèpaci che ricorda i bei tempi di Torino, dell’Ordine nuovo, quando
il suo Maestro era stato anche il compagno di lotta. E la festa che prosegue.
5. Echi polemici e ragioni ideali
La posizione di Rèpaci, in tutti i momenti, dal concepimento dell’assegnazione,
all’orientamento della giuria, alla scelta finale, era stata e fu di pieno, battagliero sostegno ad
una ipotesi che dall’inizio gli apparve del tutto giusta. Il verbale ufficiale della giuria riconosce
«l’indiscutibile primato» delle Lettere gramsciane, «scritte nella più dura prigionia», «animate
da una strenua volontà di difendere la propria vita», da parte dell’autore che dal buio del carcere
«riesce ancora ad essere la guida morale per chi è rimasto fuori». Conclusione: «La ‘condizione
umana’ non ha avuto in questi tempi confusi un più lucido assertore e testimone». La giuria ha
premiato – come commenta «l’Unità» - «forse l’unico libro che serva, l’unico libro che aiuti»,
quello che «riporta di colpo la funzione dell’uomo di cultura e dello scrittore, sul piano di un
elevatissimo messaggio valido per tutti gli uomini».
Una scelta del tutto giusta, dunque. E del tutto anticonvenzionale: aver premiato l’opera di uno
scrittore non di professione; aver premiato un ‘politico’; aver premiato un autore morto dieci
anni prima; aver premiato un ‘classico’.
Nella difesa di questo carattere anticonvenzionale della scelta del ’47, Rèpaci dette veramente il
meglio di sé nelle polemiche che inevitabilmente seguirono. Ché, se le polemiche sono una
caratteristica costitutiva e si direbbe ineliminabile del Premio, quell’anno c’erano tutte le
premesse per passare il segno52.
Le più immediate furono quelle del momento, che uscirono in cronaca nei giorni successivi
all’assegnazione: le più banali forse, spia però di una diffusa area di antipatizzanti. Ci si era
messa anche «l’Unità» a far confusione, facendo uscire nella sua edizione genovese, con un
giorno di anticipo rispetto alla concorrenza, la notizia. Colpa o merito di cronisti intraprendenti
o impazienti (si fece il nome di Silvio Micheli collaboratore dell’Unità53) o di segretari
imprudenti (Sbrana se ne attribuì la responsabilità54).
Ma come si è detto la notizia era nell’aria, se si registrò la presenza di pubblico anche non
aduso a tanta mondanità, come lavoratori e popolani militanti di sinistra coinvolti
nell’occasione. Non propriamente parte del pubblico sarebbero stati poi, presenti in visibile
quantità, membri di un servizio d’ordine organizzato all’uopo, prevedendosi possibili
contestazioni o disordini. La notizia, evidenziata da Sandro Volta su «L’Europeo», fu irrisa da
Rèpaci, che rinforzò la polemica esagerando con partigiani «tra i tavoli con le bombe a portata
di mano»55. Ma, al netto di ogni evidente montatura, la circostanza non risulta affatto
improbabile, nella città che un anno prima aveva visto impegnati ufficialmente i partigiani
9
dell’ANPI nei servizi di ordine pubblico legati al Casinò e che l’anno dopo, in occasione
dell’attentato a Togliatti, vedrà l’opposizione del sindaco a mettere sotto tutela prefettizia la sua
polizia municipale56!
Molti insistettero sulla cattiva organizzazione della serata, in quel locale, la Capannina del
Marco Polo, presentata come «un’onesta, feriale pista da ballo» 57, se non come un locale di
second’ordine che doveva rimontare la cattiva fama recuperata con i soldati neri della 92a
Buffalo. In realtà anche il Royal di Gentili, quell’anno non disponibile, non era risultato
impeccabile l’anno prima; e la Capannina, che registrava lo sforzo dell’imprenditore milanese
Baglietti, annoverava tra gli organizzatori di spettacoli un Sergio Bernardini all’inizio della sua
carriera58. E poi, immancabili in una perfetta serata versiliese, i cazzotti (per questioni
galanti)59.
Salendo di tono, non pochi notarono lo strappo alla regola, se non al regolamento,
dell’assegnazione postuma. Ma l’eccezionalità del premiato non dovette lasciare molti dubbi
sulla possibilità, anzi sull’opportunità dell’eccezione, che non rimase del resto l’unica nella
storia del Premio60.
Semmai altre perplessità si nascondevano dietro alle obiezioni sul carattere postumo del
Premio. Intanto, quella sui destinatari effettivi: gli eredi di Antonio, i suoi figli. Era pressoché
sicuro, come fu in effetti, che Delio e Giuliano, cittadini sovietici, rispettivamente ufficiale di
marina e musicista, non sarebbero stati presenti a ritirare quella sera il Premio, che rimaneva a
loro disposizione per un anno. Solo qualche mese dopo sarà possibile ottenere gli speciali
permessi. La venuta in Italia fu allora per i due fratelli l’occasione per un lungo giro organizzato
dalla Direzione del PCI (dal congresso comunista di Milano, alla visita a Ghilarza, fino in
Puglia). La cerimonia di consegna del Premio, dalle mani di Rèpaci, si svolse in municipio, il
30 gennaio 1948. Ovvio come chi voleva far polemica rimarcasse la non italianità dei Gramsci,
questi figli «degeneri» che parlavano solo russo61. Della qual cosa essi si giustificarono, nelle
poche parole dette in occasione del ritiro del Premio, ricordando come il motivo di ciò fosse la
stessa causa che aveva condotto il loro padre alla morte: il fascismo62.
Ben diversa, per tornare alle polemiche agostane, la questione di opportunità sollevata da
Pavese, in una lettera privata a Pietro Pancrazi, in cui torna la questione del carattere postumo
del riconoscimento. Consentendo con l’articolo che Pancrazi aveva pubblicato sul «Corriere
della Sera», che valorizzava l’opera di Gramsci «in sede storica e di cultura» sicché il suo
lavoro non sarebbe dovuto rimanere patrimonio dei soli comunisti, Pavese affermava: «avrei
preferito che il premio non lo dessero a lui. Non è un po’ un diminuirlo? Un premiare postumi,
che so, Machiavelli o Cattaneo?»63.
E in effetti, l’idea che il Premio Viareggio non avesse nulla da aggiungere ai meriti di Gramsci
ed anzi avesse avuto il demerito di mescolare il suo nome «a polemiche magari non scritte, a
pettegolezzi, a comparazioni alle quali, vivo, non avrebbe gradito essere sottoposto» è del pur
simpatizzante Gabriele Pepe, che invero riconosce l’eccezionalità e l’importanza di un
deliberato che ha saputo uscire «da un gretto e scolastico concetto di letteratura». A lui dunque
la premiazione «piace e spiace insieme». Ed ancora, tra i motivi del dispiacere: si è indicata
un’opera «di appassionante lettura» ad un grosso pubblico, ma lo si è fatto «in quella esibizione
borghese», «in un ambiente mondano»64.
Rispetto alle caratteristiche del premiato, dispiacque in effetti a molti il clima di mondanità.
Esso era indubbiamente costitutivo del Premio Viareggio e alcune di queste polemiche
risuonarono sicuramente strumentali65. Però il tema era di quelli da far breccia anche a sinistra.
Risposta a questo genere di obiezioni, e direttamente a Angelo Magliano66, dette Rèpaci in un
articolo pubblicato sul suo giornale, dal titolo invero paradossale, Abbiamo cristianizzato in
10
Paganìa, che fa indossare a Leonida addirittura le vesti del missionario: «Il Premio Viareggio
ha voluto farsi un dovere della diffusione fra gli italiani del ritratto che Gramsci ha dato di sé
attraverso gli anni del carcere». Di fronte «alla solita folla borghese»? E certo. Una folla che
però ha pagato per venire a sentir parlare di un libro, che sapeva esserci «nell’aria la notizia
della consacrazione letteraria del grande rivoluzionario», che ha «ascoltato in religioso silenzio»
la proclamazione, che ha dimostrato insomma «una sensibilità non del tutto ‘balneare’». «Non
festa mondana, ma cristianizzazione, dunque. Missione. Abbiamo buttato un grande libro in
mezzo a una folla svagata, perché riflettesse sul destino di un uomo come Gramsci»67. Che poi
voleva dire, più in generale, rivendicare il valore di divulgazione del Premio.
Una reazione personale tutta particolare riservò Rèpaci contro Sandro Volta e il suo sopra citato
articolo pubblicato su «L’Europeo»: l’unica che rimane sul suo Taccuino segreto. E’ vero, la
cronaca di Volta è la fonte – o comunque riprende - tutte le notizie trash di cui si è detto. Ma è
anche quella che fa più male: Volta sa meglio di tutti come si sono svolti i fatti; e riporta
memoria e attenzione sul tentativo della Società di Cultura (portando alla luce tra l’altro tre
nomi di giurati che avrebbero affiancato Terracini e Russo: Pietro Pancrazi appunto, e poi
Gianfranco Contini e Eugenio Montale). Ma Volta ha torto quando rimprovera la matrice
politica della scelta. E’ evidente - sostiene in opposizione Rèpaci - che non ci si può lamentare
che ci sia qualcuno che apprezza Gramsci anche senza essere comunista, come si era riscontrato
in giuria (una giuria in cui i comunisti erano in netta minoranza), con un voto unanime e una
decisione praticamente indiscussa.
In effetti, le accuse più roventi risultarono proprio quelle politiche, facessero o meno
riferimento all’intervento di Togliatti. La guerra fredda era davvero cominciata anche sul
terreno culturale
Nette quelle de «La Civiltà Cattolica»: il premio era stato un riconoscimento politico e non
letterario, inserito nel quadro delle celebrazioni comuniste per il decennale della morte;
Gramsci faceva «tabula rasa di tutti quei valori spirituali, religiosi e morali la cui negazione è
alla base del movimento da lui impersonato»68.
Anche per Giorgio Bianchi, sul popolare periodico «Oggi», le Lettere, pur «alto e nobile
documento morale» era un’opera frammentaria che «artisticamente non regge alla critica»,
premiata solo grazie all’intervento di Togliatti, con quella lettera in cui impartiva «l’ordine che
fosse riconfermata in carica la vecchia giuria del premio»69.
Sullo stesso tenore, ma oltre ogni limite, Marco Ramperti: anche per lui, si era premiato uno
«scrittore mediocre», «per far cosa grata al comunista Togliatti»70.
Fu questo intervento che evocò, a testimonianza invece di un consenso contrapposto ben più
significativo, un fermo documento sotto il quale Rèpaci raccolse una quarantina di
prestigiosissime firme; molti giurati, ovviamente e poi, tra gli altri, Romano Bilenchi, Giorgio
Caproni, Emilio Cecchi, Guido Piovene, Umberto Saba, Giuseppe Ungaretti71.
Ma sarà proprio Giacomo Debenedetti a rivendicare nel modo più efficace la legittimità,
l’autonomia e il valore della scelta del 1947, trovandosi a riflettere, qualche anno dopo, sulle
passate vicende del Premio.
[…] tra le varie giurie, questa di Viareggio, appunto perché così composita, numerosa e di così diversa
estrazione, finisce coll’essere una delle più equilibrate e delle meno partitanti; una delle più libere. Le
famose baruffe viareggine, che sono state ampiamente scandalo e cronaca, diventano, all’indomani delle
libecciate, la maggior garanzia che le cose si sono fatte secondo coscienza.
Dalla sua seconda nascita in poi, cioè dal ’46, il Premio Viareggio si è conquistato un titolo che ne illumina
tutta la storia. Ha premiato all’unanimità le «Lettere dal Carcere» di Gramsci. Questo basterebbe a
11
rassicurare per sempre i nostri scrupoli di «giudici». Un premio, di solito, riesce a dare un po’ di fama al
premiato; quella volta è stato il premiato a dare gloria veramente duratura al premio72.
1
L. Rèpaci, Taccuino segreto, Prima serie, (1938-1950), M.P. Fazzi Editore, Lucca 1967, p.401. La notazione è
attribuita al 4 gennaio 1946. L’opera rappresenta l’aggiornamento al 1950 del volume edito nel 1929 e
ripubblicato nel 1944 da Bompiani; contiene, distribuiti in ordine cronologico, scritti editi e inediti, preziose
cronache culturali e notazioni personali e autobiografiche, sempre segnate dal tono battagliero dell’autore e dalla
sua incoercibile vocazione al protagonismo: un diario imprescindibile per conoscere e valutare la personalità e il
ruolo del titolare del Premio.
2
E’ quanto si ricava dalla sua scheda personale in Archivio Centrale dello Stato, Casellario Politico Centrale,
busta 4282, estremi cronologici 1922-1938. Rèpaci, nato a Palmi (RC) nel 1898, collaboratore a Torino
dell’«Ordine nuovo» di Gramsci, socialista e poi comunista, si trasferisce nel 1922 a Milano. La sua scheda è
inaugurata in quell’anno con la segnalazione della sua attività di avvocato in difesa degli imputati dell’attentato al
teatro Diana. Il fatto culminante è poi, nel 1925, il coinvolgimento a Palmi in una sanguinosa sparatoria contro i
fascisti del luogo: assolto successivamente dall’accusa di omicidio, all’episodio seguì la sua uscita dal Partito
comunista. Da allora, la sua scheda, che resta attiva fino al 1938, si rianima solo per le pratiche di rilascio del
passaporto: Rèpaci soggiornò per periodi relativamente prolungati a Parigi.
3
L. Rèpaci, op. cit., pp. 263-264, 23 luglio 1939.
4
Furono anche anni di pausa della sua attività di romanziere. I suoi scritti si limitarono in questo periodo ad
articoli di critica artistica e teatrale, prevalentemente pubblicati su «L’illustrazione italiana». Si può vedere al
riguardo Stefano Bucciarelli, Rèpaci e i compagni di strada dell'arte, in I segni incrociati. Letteratura Italiana del
'900 e Arte Figurativa, a cura di Marcello Ciccuto e Alexandra Zingone, Mauro Baroni editore, Viareggio 1998,
pp. 641-650. L’attività di Rèpaci riprese in pieno subito dopo la liberazione di Roma allorché dette vita, con
Renato Angiolillo, al quotidiano «Il Tempo».
5
Il «premio purchessìa» sarà nel 1947 per Calvino il Premio Riccione (riservato agli inediti), attribuito all’autore
del Sentiero in ex-aequo con Fabrizio Onofri, Morte in piazza, per il giudizio di una qualificatissima giuria
presieduta da Sibilla Aleramo. Ma Calvino non gradirà affatto la soluzione, non presentandosi a riceverlo.
6
Per la fonte si rimanda al nostro scritto citato nella successiva nota 8: Il sangue e la carta, nota 2, p. 118.
7
Lettera a S. Micheli del 20 marzo 1946, in Cesare Pavese, Lettere 1945-1950, Einaudi, Torino 1966, p. 64.
8
Su Micheli, sulla rivista «Darsena nuova» e sulle vicende di quel premio, si rimanda ancora ai lontani saggi
pubblicati sulla rivista dell’Istituto storico della Resistenza e dell’Età contemporanea in provincia di Lucca:
Stefano Bucciarelli, Il sangue e la carta. Introduzione a Silvio Micheli; Marcello Ciccuto, Una rivista del
neorealismo: «Darsena Nuova»; Mario Casagrande, Silvio Micheli, «Darsena Nuova» e la vita politico-culturale
a Viareggio negli anni del dopoguerra, «Documenti e Studi», (1991) 12/13, pp. 117-148, 149-165, 167-222.
Un reprint della rivista, con saggi dei medesimi tre autori, è Darsena Nuova. Ristampa anastatica dei cinque
numeri 1945-1946, Mauro Baroni editore, Viareggio 1997.
9
Stefano Bucciarelli, Sandrino Petri: un sindaco comunista nella provincia bianca, in «Documenti e studi»,
(2013) 35, pp. 55-86.
10
Il presidente di questo ente governativo, di nomina prefettizia, era Corrado Ciompi, che aveva ricoperto la
carica di sindaco di Viareggio fino alle elezioni del 1946.
11
Lo rivela Elvo Puccinelli in una lettera a «La Gazzetta», 4 giugno 1946.
12
«La Gazzetta», 10 luglio 1946.
13
«E Leonida Repaci, che pure accettò di sedere in mezzo al minor senno dei giudici darsenotti, non si è
preoccupato di gettare un ponte tra le due rive?». Così Effe [G. Fusco], Perché Greppi e Petri no?, su «La
Gazzetta», 18 luglio 1946.
14
L. Rèpaci, op. cit., p.441, 28 luglio 1946.
15
Della costituzione e dell’attività della Società di Cultura dette notizia«La Fiera letteraria», II (1947) 3.
16
La lettera è presso l’Archivio privato della famiglia Petri (AP), copia integrale del quale è stata depositata ed è
consultabile presso l’Istituto storico della Resistenza e dell’Età contemporanea in provincia di Lucca.
17
L’originale della lettera è in AP; copia fotostatica in Viareggio 50: 50 anni di cultura italiana, a cura di
Francesco Bogliari, Guglielmo Petroni, Gabriella Sobrino, Edizioni delle autonomie, [Roma] 1979, p. 64.
18
Il quotidiano sorse con una direzione a quattro: Virgilio Dagnino, Giuseppe Faravelli, Aldo Valcarenghi e
Leonida Rèpaci. L’incarico di Leonida durò in realtà pochi mesi, per divergenze di vedute proprio in merito ai
12
rapporti con i comunisti, a cui egli era favorevole. Estromesso dal giornale, alla fine dell’anno Rèpaci uscì anche
dal partito.
19
Lettera di Petri a Togliatti del 5 luglio 1947, minuta in AP.
20
Nato a Viareggio nel 1912, la sua attività antifascista è segnalata al Casellario Politico Centrale dal 1931
(Archivio Centrale dello Stato, CPC, busta 4642, fascicolo 098965). Richiamato alle armi nel ‘42, fu colto
dall’armistizio sul fronte greco e preso prigioniero dai tedeschi. Patì la condizione di IMI e, deportato in Polonia,
riportò nella prigionia una grave invalidità. Descrisse la sua esperienza in Giorni che sembrano anni, Parenti,
Firenze 1960), vincitore del Premio Prato nel 1960. Fine scrittore, sensibile autore di letteratura per ragazzi, nel
dopoguerra iniziò il suo percorso di organizzatore di cultura: dal 1947 per diciassette anni fu segretario del Premio
Viareggio e, dal 1955, animatore della Fiera del Libro. Attivo militante del PCI dal dopoguerra, nel 1970 fu per
questo partito consigliere provinciale, carica alla quale fu rieletto nel ‘75, anno della sua morte. Le vicende del
Premio Viareggio durante gli anni della sua segreteria furono da lui raccontate in Il premio, Maria Pacini Fazzi,
Lucca 1973.
21
Per la ricostruzione del clima e delle circostanze di quella discussione, e in particolare della ‘spedizione’
romana, facciamo riferimento al racconto di Leone, ben sostenuto e confermato per altro dalle carte Petri: Il
premio, pp. 5-24.
22
La questione degli intellettuali era ancora trattata in sottocommissioni e gruppi di lavoro. La Commissione
cultura nascerà nel Pci nel 1948.
23
Infatti è tuttora in AP.
24
Elio Vittorini, Lettera a Togliatti, «Il Politecnico», (1947) 35.
25
Si consideri il punto di riflessione fissato da Aldo Agosti, Le stecche del busto. Togliatti, il PCI e gli
intellettuali (1944-1947), Laboratoire italien [En ligne], 12, 2012: «C’è un rapporto tra questo ruolo quale lo
concepiva Togliatti e le riflessioni di Gramsci in carcere ? […] È proprio se dimostra la capacità di guadagnarsi
l’adesione non solamente dei suoi ‘intellettuali organici’ (quelli cioè che sono espressione diretta dei suoi
interessi), ma di strati assai più vasti di intellettuali, che una classe di governo dimostra di essere non soltanto
‘dominante’ ma ‘dirigente’: cioè di svolgere un ruolo ‘realmente progressivo’, che fa avanzare realmente l’intera
società».
26
Vicende e giudizi pesanti sull’uomo e sullo scrittore torneranno successivamente alla luce, imbarazzanti e
dolorosi per Rèpaci stesso, quando usciranno, con l’edizione critica di Gerratana dei Quaderni (1975), quelle
pagine gramsciane che lo riguardavano, che non erano state pubblicate nelle edizioni togliattiane, ma che Togliatti
già allora doveva conoscere.
27
Lettera di P. Togliatti a I. Busetto, Roma 4 agosto 1947, in Togliatti editore di Gramsci, a cura di Chiara
Daniele, introduzione di Giuseppe Vacca, Carocci, Roma 2005, pp. 93-94.
28
L’espressione è di Mario Albertini, Un Gramsci edificante, «Lo Stato Moderno», 4 (1947) 17, pp. 387-388. Gli
interventi coevi a cui d’ora in poi si farà riferimento sono in buona parte riscontrabili, come lo è questo, su
Bibliografia gramsciana ragionata 1922-1965, vol. I, a cura di Angelo D’Orsi, Viella, Roma 2008.
29
Il rapporto è posto esplicitamente in Francesca Chiarotto, Operazione Gramsci. Alla conquista degli intellettuali
nell’Italia del dopoguerra, Bruno Mondadori, Milano 2011, il cui primo capitolo è dedicato proprio a Il Viareggio
alle Lettere di Gramsci (riprodotto come saggio in Antologia Premio Gramsci XII edizione – Ales - Gennaio 2011,
Editrice Democratica sarda, Sassari 2012, pp. 95-125, essendo la ripresa e l’ampliamento del lavoro vincitore
dell’edizione).
30
Con le parole di Calvino, Antonio Gramsci fu un’esemplare figura di italiano moderno che seppe «innestare nel
tronco della più rigorosa cultura tradizionale italiana la mordente storicità del materialismo dialettico»: I. Calvino,
Lettere dal carcere, «L’amico del popolo», 2 (1947) 15.
31
B. Croce, A. Gramsci, Lettere dal carcere, «Quaderni della critica», 3 (1947) 8, p. 86.
32
B. Croce, A. Gramsci, Il materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce, «Quaderni della critica», IV
(1948) 10, pp. 78-79.
33
[P. Togliatti], Antonio Gramsci e don Benedetto, «Rinascita», 4 (1947) 6, p. 152.
34
Il discorso, tenuto il 27 aprile 1947, è riprodotto in L. Russo, Antonio Gramsci e l’educazione democratica in
Italia, «Belfagor», 2 (1947) 4, pp. 395-411.
35
P. Alatri, Una noterella su Gramsci e Croce, «Società», 3 (1947) 3, pp. 679-685.
36
Al riconoscimento di questo ideale educativo nel “tipo moderno di Leonardo da Vinci divenuto uomo-massa”,
esplicito in una lettera a Giulia, si riferisce Lucio Lombardo Radice, Spunti di educazione nuova nelle lettere di
Antonio Gramsci, «Rinascita», 4 (1947) 8, pp. 229-230. L’articolo, che è datato 16 agosto 1947, ci sembra l’unico
della bibliografia gramsciana del periodo che si muova sullo stesso terreno di Debenedetti. Su quest’ultimo, si
13
veda il recente contributo di Eleonora Forenza, Il Gramsci «molecolare» di Giacomo Debenedetti: il problema
politico dell’autobiografia, «Historia Magistra», (2013) 12, pp. 123-136. Dalle notazioni di Debenedetti, nonché
dall’interesse per gli spunti educativi di Lucio Lombardo Radice, muoveva già Dario Ragazzini, Leonardo nella
società di massa. Teoria della personalità in Gramsci, Moretti&Vitali, Bergamo 2002 (da noi recensito: Gramsci,
Leonardo e la società di massa, «Critica marxista. Nuova serie», (2002) 4, pp.71-73).
37
Minute delle due lettere in AP.
38
Interessante il racconto che fa Sbrana del suo colloquio personale con Luigi Russo, che gli espresse il solo
“rammarico per non essere tra quelli che premieranno un libro eccezionale” (L. Sbrana, Il Premio, cit., p. 27).
39
Lettera di A. Petri a U. Terracini del 6 agosto 1947, minuta in AP.
40
Rogito Notaio Casella 16 agosto 1947, registrato in Viareggio il 20 agosto 1947 al n. 203 Vol. 8.
41
Un notevole numero di opere all’esame della giuria, «l’Unità», 3 agosto 1947. Sono ventuno i titoli riferiti
nell’articolo, tra cui figurano ovviamente le Lettere.
42
L’anno prima erano state 200 mila. A titolo di confronto si può ricordare che lo Strega esordì nel ‘47 con la
cifra di 200 mila lire di primo premio, che toccò a Flaiano, e 100 mila che andarono a Bigiaretti.
43
Il numero unico Il Premio Letterario Viareggio - 1947 recherà la data della serata finale, il 15 agosto, uscendo
dalla tipografia (F. Azzaro di Viareggio) due giorni prima.
44
Il testo di Rèpaci è riprodotto anche in op. cit., pp. 485-490 (13 agosto 1947).
45
La silloge uscirà per Mondadori entro la fine dell’anno.
46
Al personaggio era dedicato il libro Un sabotatore: Giorgio Labò, La Stampa Moderna s.r.l., Milano 1946,
un’opera a più mani comprendente il contributo di Trombadori, recentemente riedita da Gangemi Editore spa,
Roma 2014.
47
Il brano, scritto nel 1944, era già stato pubblicato in «Arethusa» nel 1945. Sarà poi in Le piccole virtù, raccolta
di racconti pubblicata da Einaudi nel 1962.
48
Marcello Ciccuto ha segnalato la sicura vicinanza tra il numero unico e la rivista di Micheli, «per stile, sostanza
degli interventi e insieme anagrafico dei collaboratori» (saggio citato alla n. 8, p. 151).
49
Il verbale ufficiale della giuria è pubblicato in Il premio Viareggio 1947 alle “Lettere dal carcere”, «l’Unità»,
19 agosto 1947.
50
Viareggio 50: 50 anni di cultura italiana, cit., I vincitori del dopoguerra, p. 144.
51
L’articolo Un poeta. Non voto per Gramsci, «Il Corriere dell’Isola», 14 settembre 1947, darà notizia del
mancato voto di Manara Valgimigli. Ma la testimonianza è indiretta e la notizia non sicura.
52
Il Taccuino di Rèpaci riportava in apertura del mese di agosto colorite espressioni di una pugnace
consapevolezza delle battaglie che lo attendevano al varco: “Il Premio Viareggio contro il vento s’alleona. Pestare
le onde che gli si appallònano davanti è il suo mestiere”, op. cit., p. 485 (10 agosto 1947).
53
«La patria», 17 agosto 1947.
54
L. Sbrana, Il Premio, cit., p. 27.
55
S. Volta, Il Premio Viareggio si è concluso a pugni, «L’Europeo», n. 34, 24 agosto 1947, p. 2 e L. Rèpaci,
op.cit., p. 491: la risposta polemica di Rèpaci contro le varie affermazioni contenute in questo articolo, che
nuovamente dovremo citare, la leggiamo in op. cit., pp.490-493.
56
Particolari nel saggio di cui alla nota 9, pp. 63, 72-73 e 83.
57
Gianni Giannantonio, Il Premio letterario Viareggio a “Lettere dal carcere” di Gramsci, «La Nazione», 17
agosto 1947.
58
Aldo Santini, Breve curiosa avventura del Premio Viareggio, Il Cavalluccio Marino Editore, Viareggio 1961, p.
65.
59
Ancora Sandrino Volta, il titolo del cui articolo (vedi nota 54) prende spunto proprio dall’episodio. L’anno
prima, su una questione di posti a sedere, schiaffi ne aveva somministrati lo stesso Rèpaci (op. cit., p. 442).
60
Fu così per I racconti di Antonio Delfini, che vinse nel 1963: altra edizione cruciale e contestata.
61
I figli di Gramsci parlano russo, «Il Corriere dell’Isola», 23 novembre 1947.
62
Ne riferisce Maurizio Ferrara, Il Premio Viareggio’47 consegnato ai figli di Gramsci, «l’Unità», 30 gennaio
1948. Sbrana ci dà un emozionato racconto di come egli accompagnò il soggiorno viareggino di Delio e Giuliano,
che incluse visita pucciniana a Torre del Lago e fugace apparizione al ‘veglione rosso’ di Carnevale (L. Sbrana, Il
Premio, pp. 30-33).
63
C. Pavese, Lettere 1926-1950, I, Einaudi, Torino 1966, p. 551: lettera a Pietro Pancrazi, 22 agosto 1947.
L’articolo sul «Corriere» di Pancrazi, Lettere dal carcere di Antonio Gramsci, era, secondo l’autore, solo
casualmente finito a commento del Premio, nell’edizione del 17 agosto 1947. In risposta alla lettera di Pavese,
Pancrazi rinforzava contro Rèpaci: «Aggiunga che nella formazione del comitato e per aggiudicare il premio si
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sono ripetuti metodi squisitamente fascisti». E’ da dire della vecchia ruggine tra lui e Rèpaci, per una questione
legata alla sua mancata presenza nella giuria del Viareggio, fin dall’edizione del 1946, denunciata allora da
Vigorelli su «Oggi» e dovuta, secondo Leonida, a dimissioni volontarie (op. cit., pp. 446-447).
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Gabriele Pepe, A Gramsci il “Premio Viareggio”, «La Voce Repubblicana», 24 agosto 1947. Per altro Pepe era
l’autore di una appassionata e ricca recensione delle Lettere, pubblicata sul numero di giugno di «Rinascita», 4
(1947) 6, in La battaglia delle idee, pp. 165-167.
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L’atmosfera è restituita, con rispetto diremmo quasi oleografico del cliché mondano, dal servizio del
cinegiornale «La Settimana Incom», Nel mondo delle lettere: il premio Viareggio, 22 agosto 1947, riproducibile
interrogando on line l’Archivio dell’Istituto Luce (http://www.archivioluce.com/archivio/).
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A. Magliano, Questo Premio Viareggio, «Corriere Lombardo», 24 agosto 1947. L’autore, già partigiano con
Edgardo Sogno, vincerà anche lui a Viareggio uno speciale premio opera prima con La borghesia ha paura
(1957).
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L. Rèpaci, Abbiamo cristianizzato in Paganìa, «L’Umanità», 27 agosto 1947.
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A. Gramsci, “Lettere dal carcere”, «La Civiltà Cattolica», 97 (1947) 2340, pp. 575-576.
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G. Bianchi, Polemiche viareggine, «Oggi», n. 37, 14 settembre 1947, p. 2.
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M. Ramperti, Sul Premio Viareggio, «L’Ora d’Italia», 24 agosto 1947.
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Gli scrittori italiani contro un libellista repubblichino, «L’Unità» 31 agosto 1947. Al documento segue l’elenco
dei firmatari.
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G. Debenedetti, Una recensione scritta su un assegno, in Il Premio ha 25 anni, a cura di L. Sbrana, Luciano
Landi editore, Viareggio 1955, p. 28.
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